Lectio Divina 2025/2026 - Parrocchia Sacro Cuore

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Lectio Divina 2025/2026


CALENDARIO INCONTRI PARTE 1 -
ANNO 2025-26


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Lectio Divina
 
 
E-vangelo di Matteo – Per una missione-compito che è fede-fiducia.
 
Il vangelo ecclesiale, che mostra che le Promesse hanno “compimento” nel Regno che Gesù inizia.
 
Scritto in greco tra il 70 e l’80, sapientemente unito tra racconto e catechesi (cinque grandi sermoni: le beatitudini, la missione, le parabole, la chiesa e l’escatologia, ossia l’ ”oltre”).


I. Domenica 12-10
 
Invocazione Spirito – Introduzione Vangelo

 
 
Iniziamo con un momento di raccoglimento in cui chiediamo il dono dello Spirito perché la Parola di Dio possa dare a ciascuno di noi una risposta:
 
“Respira in me, o Spirito Santo, affinché io pensi santamente.
 
Cresci in me, o Spirito Santo, affinché io agisca santamente.
 
Seducimi, o Spirito Santo, affinché io ami santamente.
 
Fortificami, o Spirito Santo, affinché io vegli santamente.
 
Custodiscimi, o Spirito Santo, affinché io non tradisca mai ciò che è Santo".
 
E’ questa un’invocazione dello Spirito scritta da Sant’Agostino che centra le sue domande sulla parola “santamente”, perché essere credenti significa diventare santi e collega le azioni come abbiamo ascoltato: respira e pensa, cresci e agisci, seducimi perché io ami, fortificami perché io vegli, custodiscimi perché non tradisca. Cinque paralleli e cinque conseguenze.
 
Ascoltiamo la Parola del Vangelo di oggi:
 
Dal Vangelo secondo Luca
 
Lc 17,11-19
 
Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samarìa e la Galilea.
 
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, i quali,  fermatisi a distanza,  alzarono la loro voce dicendo: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati.
 
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si gettò ai piedi di Gesù, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
 
Ma Gesù osservò: «Non  sono stati guariti tutti e  dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio all’infuori di questo straniero?». Egli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
 
Leggiamo la preghiera di ringraziamento (allegata), che esprime il senso di questo vangelo, centrato sulla gratitudine.
 
Don Gianni introduce la lectio, questo momento particolare, con alcune considerazioni e con due domande. A giugno ci siamo lasciati con la decisione, da prendere, sulla continuazione della lectio, perché sempre così si deve fare quando è il momento di ripartire e con la scelta, da fare,  tra il tema della fraternità e quello della missione. Il primo pensiero è relativo al contesto in cui si pone la lectio ed anche a cosa è la lectio. Il tempo che viviamo è sicuramente molto diverso da quello, lontano,  nel quale la lectio è iniziata.
 
Intitoliamo così il primo pensiero:
 
“SPIRITO”: la lectio è un tempo dedicato allo Spirito, all’interiorità, a ciò che è indicibile ma essenziale, è una via di crescita. E allora da subito, ci si potrebbe interrogare domandandosi “Dove sto io?” E ciò perché Qualcuno mi eleva. C’è una statura, uno spessore spirituale per cui la vita può essere più o meno consistente. Come diceva Giovanni Paolo II “duc in altum”, andiamo al largo,  così come Emily Dickinson “we never know how high we are…”non sapremo mai come siamo alti finché non ci solleviamo dalla prostrazione a terra nella quale ci troviamo, in ragione della paura di stare in piedi.
 
La lectio è un cammino di meditazione, un laboratorio di passi per andare nel profondo o forse meglio in alto, verso l’ascesi, una ricerca di senso: noi, come Chiesa, abbiamo una tradizione che ci aiuta nei nostri passaggi, che ricerca la verità del sé e che, deve muoversi verso giù, come Sant’Ippolito, patrono della diocesi, che buttato nel pozzo é andato davvero a fondo.
 
Oggi più che mai, in una cultura della superficie in cui si sente dire e non si sa neanche di cosa si sta parlando, perché nulla viene approfondito e ci si riempie la bocca di slogan, il card. Martini diceva: “cosa c’è nel cuore dell’uomo? Cosa mi manca?” facendo capire che si parte sempre dal bisogno. “Qual è il mio disordine? Ciò che devo risolvere? Il nodo che ancora non ho sciolto?” E suggeriva quattro parole evangeliche per dire la nostra inconsistenza, utili come obiettivo in un cammino di ascolto, di lavoro con sé stessi.
 
Citava il passo evangelico del fico sterile: Gesù che va verso Gerusalemme, cerca i frutti, non li trova e maledice l’albero, che si secca. Noi abbiamo tante buone intenzioni ma un’incongruenza considerevole che ci impedisce di arrivare alla vita, di essere davvero incarnazione, di avere i piedi per terra.
 
Citava la parabola della casa costruita sulla sabbia: c’è un costruire sulla roccia che ci rende persone solide, con una consistenza e c’è il nulla che avanza, che ci fa venir meno quando siamo messi alla prova.
 
Citava quella cosa così difficile da accettare, di coloro che vanno da Gesù e gli dicono “ho predicato nel tuo nome, ho mangiato con te..” ed Egli dice “In verità non vi conosco, operatori di iniquità”. Tremendo, non tanto come Gesù ci disconosca, ma come noi non conosciamo chi è Gesù. Per noi è una figura della storia e soltanto il Vangelo ci dice la Sua umanità, il Suo essere presenza, accanto alla donna al pozzo di Samaria, neanche riconosciuta. Ma è proprio questo il Dio discreto che quasi si nasconde accanto a noi.
 
L’ultima parola che ci suggerisce il Card. Martini riguarda la verifica di Gesù ed è che siamo gli invitati alle nozze: il Figlio del Re fa festa ma ognuno ha altro da fare ed è quasi inaudito che ci sia qualcuno che rifiuta una cosa bella come l’essere invitato alla festa, alla gioia, a ciò che in fondo desidera.
 
Attenzione, dunque a fare questa cosa della lectio con convinzione, perché se non ci modifica è soltanto una conferma della situazione iniziale, terrena, alla quale torniamo se non siamo capaci di crescere. Ci sono persone che vivono nella Chiesa da una vita, e che fondamentalmente non sono cambiate, non si sono convertite, si autogiustificano. Ci sono matrici culturali che portiamo dentro, alle quali facciamo inevitabilmente ritorno se il Vangelo non diventa per noi lievito di vita “diversa”. Il nostro modo di reagire quando qualcosa vorrebbe provocarci è di fare un pò e un po’; ma non funziona così, rimaniamo separati e non diventiamo pasta nuova.
 
Intitoliamo così il secondo pensiero
 
“ UMANITA’ “: don Gianni ci dice che avrebbe voluto fare la lectio di quest’anno sulla fraternità ma di fronte alla domanda se siamo davvero fratelli  risponde che non è così. Oggi è realmente difficile essere meno che anonimi gli uni per gli altri; ognuno ha le sue preoccupazioni e fare corpo è la grande scommessa, la fatica della Chiesa. E possiamo soltanto accettare questo, assumere la nostra parzialità, imparare che siamo poveri proprio nella cosa che più vorremmo: l’unità, la comunione, l’amore. Il nostro tempo sfida ciò che siamo. Le persone che ci circondano sono centrate soltanto sul proprio punto di vista,  non sono in grado di vivere l’empatia,  parlano dei loro problemi e non sono capaci di ascoltare quelli degli altri, di capire che anche l’altro  ha un problema. Alcuni vivono davvero in una bolla autistica, non riescono a rendersi conto, neanche un po’, del proprio egoismo radicale, della concentrazione esclusiva su se stessi. E’ finita la stagione delle narrazioni, in cui chiedevi a qualcun altro “come vanno le cose?” In Puglia  le case sono al piano terra,  si mettono fuori le seggioline e si raccontano i fatti. Ora non esiste più il paese inteso come luogo di socializzazione; non c’è comunicazione profonda, ma solo funzionale e non proviamo neanche a dire i nostri problemi a qualcun altro perché ciascuno ha i suoi e non ci capirebbe. Tutto ciò non per denunciare qualcuno, ma per parlare di un fenomeno sociale che porta a relazioni solo “duali”, senza mai fare corpo, gruppo. Non ci accorgiamo che andiamo nei centri commerciali per prendere cose da mangiare e i centri commerciali mangiano noi…si incrociano persone disattente, distratte, selettive che danno attenzione a una persona dimenticando totalmente un’altra.
 
Il terzo pensiero si chiama “ECCLESIA”: la Chiesa è un luogo teologico, in cui c’è una Presenza, in cui l’uomo può incontrare il Mistero, Dio. Una Parrocchia, il set nel quale stiamo, si definisce proprio così, parà oikia, prossima alle case dell’uomo. Perché ci interessa la Parrocchia se il cammino è un’altra cosa rispetto alla pastorale? Perché ci sta dentro! E’ comunque Chiesa!  Ecco, la Parrocchia, oggi, cerca una sua forma che non è più quella di prima. La grande questione è il fatto che la Parrocchia non è più, quella “cosa sola” indicata nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni, quel qualcosa che non é individuo o  semplice aggregazione di persone con la preghiera di Gesù al Padre  “Ti prego, fa che siano una cosa sola”. Oggi, è a rischio l’unità della Chiesa. In nome delle idee individuali che ognuno coltiva stiamo rischiando di perdere di vista il focus che ci tiene insieme. La Parrocchia non é più una cosa sola anche perché l’appartenenza non è alla Chiesa, ma ad un  gruppo o ad un altro e per questo siamo una federazione, un mosaico, e nonostante i continui richiami all’unità del Santo Padre, la Chiesa non è più l’orizzonte di riferimento. E non è detto che anche le persone che vivono all’interno della Chiesa, vivano lo stesso obiettivo e abbiano lo stesso target; e quindi qual è la missione, il compito che ci collega e che ci fa stare insieme?
 
Secondo il card. Martini la chiesa parte da quella bellezza che si sperimenta all’inizio, la bellezza dello stare insieme, quando si scopre di essere capiti ed in cui ci si sente parte; ma poi, sempre, arriva la crisi comunitaria, in cui prevalgono le diversità e non ciò che unisce. Il rischio più grande è quello che Martini chiama l’omeostasi facciale, quella che non ti fa più muovere anche se sei presente. Molte comunità sono affette da questa incapacità di modificarsi, di essere “altro”, di fare strada insieme e continuano a fare ciò che hanno sempre fatto, senza anima, senza statura. Secondo Martini avremmo necessità di fare un battesimo collettivo, di ritrovarci intorno ad una volontà, ad un disegno; è ciò che Papa Francesco chiamava il discernimento, la capacità di immergerci di nuovo in qualcosa, che non sia semplicemente la prestazione d’opera di qualcuno accanto a quella di un altro, ma il fare insieme qualcosa di condiviso, non a distanza come nelle chat che oggi prevalgono nelle riunioni. Ci chiediamo se nella comunità di cui facciamo parte c’è l’amore di Gesù, quel fuoco che faceva l’unità, se la passione anima la nostra presenza. Dicendo che bisogna essere un po’ Marta e un po’ Maria, Martini suggeriva delle triadi di azioni del credente:
 
pregare, includere e ringraziare; (pregare nel senso di invocare, di fare riferimento a)
 
cercare, camminare e condividere.
 
Don Gianni si dà qui il compito, non tanto di fare unità, ma di essere sentinella che ci avverte ogni tanto.
 
Il quarto ed ultimo pensiero è “MONDO”: noi siamo nel mondo, ma non del mondo. Oggi il mondo spaventa il credente; ci sono  letture negative di ciò che accade, difficilmente riusciamo ad essere “sale” e “luce”,  quel fermento che  siamo chiamati ad essere. Siamo in una stagione di distruzione, che però rappresenta la pre-condizione affinché possa esserci un mondo nuovo. Ci riesce doloroso accettare di trovarci in un momento di decadenza, ma questo serve a pensare che potrebbero aprirsi orizzonti diversi.
 
Le beatitudini del sermone della montagna ci diranno come abbia valore l’antitesi che Gesù propone: “E’ stato detto, ma io vi dico…”significa che serve “un di più”, non basta accontentarsi di.., bisogna alzarsi ed andare, mettersi in movimento, non darsi per scontati, bisogna cambiare.
 
I rischi che corre la chiesa di oggi rispetto al mondo sono essenzialmente i seguenti:
 
la polarizzazione; tutto è molto più schierato oggi e quello che sta accadendo è che la politica sta entrando fortemente nelle cose spirituali, provocando atteggiamenti divisivi e contrapposizioni invece di unire. In America i giovani cercano radici identitarie, di gesti che in qualche modo ti definiscano, ma non solo lì…anche noi, nelle nostre chat sperimentiamo questa tendenza;
 
la chiusura, la rassegnazione, un altro rischio per certi versi maggiore, l’atteggiamento di chi non si schiera per non avere problemi. La Chiesa, infatti, sta facendo un sinodo sulla partecipazione perché si accorge che non c’è più coinvolgimento, appartenenza.
 
Si sentono ripetutamente critiche dell’avversario, denunce della sua incapacità e non pensieri propositivi, ragionamenti capaci di assumere il buono che la diversità dell’altro presenta; dobbiamo imparare a leggere quel che accade non in modo avversativo o fermandoci ad una lettura superficiale. Oggi il rapporto con il mondo è soprattutto una questione di linguaggio, di immaginario; prevalgono le leadership non razionali ma carismatiche, che fanno intuire orizzonti e così impariamo a parlare secondo il nostro guru di riferimento, e usiamo lo stesso linguaggio, la stessa espressività di parole, divisive, demonizzanti, distruttive dell’altro. Spesso il nostro linguaggio di oggi è ambiguo, fatto di fake, mentre cresce il bisogno di parole vere e questa cosa, di centrarci sulla Parola di Dio è oggi la missione più necessaria, senza la quale l’uomo vivrà confuso. Noi dobbiamo inventare linguaggi, essere capaci di usare parole “altre” da quelle che il mondo propone per fare i suoi giochi di dominio, essere capaci di costumi “altri”, quelli che la Chiesa chiama “le buone pratiche”. Come credenti e come cattolici siamo chiamati a contribuire alla costruzione di un mondo diverso e migliore secondo la nostra cultura, che  già ci dà di essere luce e lievito.
 
Premesso tutto questo don Gianni ci rivolge una esplicita richiesta di adesione con continuità  e fedeltà nei confronti della lectio e spiega le ragioni del calendario di incontri fin qui proposti. Avvia quindi un momento riflessivo, di confronto, di condivisione di risonanze e suggerimenti introducendolo con la beatitudine di coloro che “cercano” (allegata).
 
Segue il momento in cui Maria introduce il Vangelo di Matteo partendo da ciò che i Vangeli rappresentano per noi fedeli: non sono una dottrina che noi studiamo; è una persona che parla e alla quale dobbiamo credere.  Nel nostro mondo caotico e disorientato, alla continua ricerca del suo tornaconto, il Vangelo è quel faro che ci illumina, è fatto dalle parole di un uomo che è morto ma è anche risorto, un uomo sofferente che era anche il Messia, il re dell’universo. Egli ci assicura la Sua eterna presenza. I quattro vangeli presentano caratteristiche diverse: il Vangelo di Marco è per il catecumeno, per il neofito, per colui che inizia il cammino; il Vangelo di Luca è per il teologo, colui che si aspetta di sondare le profondità; il Vangelo di Giovanni è per il contemplativo, colui che si fa illuminare e portare dallo spirito.
 
Il vangelo di Matteo dunque, è il vangelo del catechista, di colui che porta la Parola, tutti noi, insomma. Ed è per insegnarci come si vive nella Chiesa, perché … “ogni scriba divenuto discepolo del Regno dei Cieli, è simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro  cose nuove e cose antiche”  (Mt. 13 44-52).
 
Questi nostri incontri sono anche una chiamata di Gesù a seguirlo su quel monte di cui si parla tante volte, soprattutto in Matteo (17 1): …”Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte…”. Anche noi dobbiamo affrontare il Vangelo in questa maniera, lasciandoci prendere per mano e condurre in alto.  Quella  di seguire il Vangelo non è una scelta facile, perché spesso siamo dominati dalle nostre esigenze personali oppure  vorremmo conciliare le due cose; quindi appunto, la scelta del Vangelo ci mette in crisi e così deve essere.
 
In Gv 6 60 i discepoli dicono: “questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” Quindi sentiremo, e dobbiamo sentire la fatica di seguire il Vangelo. Il dobbiamo è usato spesso da Gesù nei Vangeli. Ci dice: “non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” (Mt 26). Lo spirito è forte ma la carne è debole, ce lo dice Gesù stesso.
 
Non sappiamo con certezza se l’autore del vangelo di Matteo sia  proprio il Matteo che seguiva Gesù, ma il fatto che si usi il nome Levi depone a favore di questa tesi. Silvano Fausti, noto biblista e teologo dice che era un “genio bilingue”, in quanto scriveva in greco pensando in ebraico. Il Vangelo è stato scritto intorno all’80 d.C., quando era già avvenuta la distruzione del tempio di Gerusalemme ed era destinato principalmente agli Ebrei, che in quel momento si erano chiusi più che mai nella Legge, diventando sempre più ortodossi e rifiutando il Cristianesimo e le altre religioni.
 
“Chiesa” (ecclesia) è un termine coniato da Matteo, e lo troviamo nei capitoli 16 (v. 18) e 18 (v. 17) e sta ad indicare non una nuova dottrina ma coloro che seguendo Gesù hanno una visione nuova ed aperta, escono dal legalismo perché c’è un nuovo Mosè. E questo, oggi, noi dobbiamo essere: liberi da tutte le innumerevoli chiusure.
 
Il testo di Matteo reca moltissime citazioni che mostrano come l’insegnamento di Gesù provenisse dall’antico Testamento e spesso vi è scritto “…perché si adempisse ciò che era stato detto nella Scrittura…” facendo esplicito riferimento agli Ebrei con i quali tentava così di stabilire la relazione,  per indurre  all’apertura e far andare “oltre”. Ma qui è proprio l’anello mancante della religione ebraica che non ha riconosciuto il Messia ed è rimasta senza collegamento.
 
La Sacra Scrittura è come la musica: si sente soltanto se qualcuno la esegue. Ma bisogna saperne interpretare le pause ed il ritmo, altrimenti stoniamo e rischiamo di dare la nostra interpretazione; dobbiamo invece scoprire l’armonia ed il vero spirito della Scrittura all’interno del Vangelo, in questo caso di Matteo.
 
Ecco la beatitudine che ci spiega questo senso musicale “Beati coloro che ascoltano perché ascolteranno suonare qualcosa”.
 
E una frase dalla Lettera agli Ebrei 4  “La Parola di Dio è viva ed efficace, scruta i pensieri e i sentimenti del cuore; tutto è nudo e scoperto ai suoi occhi”.
 
Il Vangelo di Matteo si suddivide nei cinque grandi discorsi. Il discorso sulla montagna (cap.5 7), in cui troviamo le istruzioni per entrare nel Regno di Dio; il discorso sulla missione (cap. 10) in cui ci sono le istruzioni per portare la Parola, perché “missione” non è soltanto andare in Africa, ma portare la Parola da uno all’altro di noi anche qui; il discorso sulle Parabole (cap. 13) in cui c’è l’insegnamento per una buona vita; il discorso ecclesiale in cui si trovano le istruzioni per “fare ecclesia” ed infine il discorso escatologico (capitoli 24 e 25) in cui ci sono istruzioni che ci accompagnano  nella fine dei tempi.
 
Il Vangelo di Matteo inizia con una profezia: “tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del Profeta: “ecco, la Vergine concepirà e partorirà un Figlio che sarà chiamato Emmanuele”, che significa “Dio è con noi”.
 
E finisce con l’azzeramento di tutto; dice: “ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.
 
Tutto il Vangelo è incentrato sulla figura di Gesù, sulla Sua manifestazione, ma sentire Gesù non è un regalo; non è qualcosa che dobbiamo aprire, guardare, meravigliarci e metterlo in una teca; dobbiamo sentirlo dentro di noi, in una strada che siamo chiamati a percorrere e che ci lega alla Chiesa. Quando operiamo e comunichiamo possiamo dire di essere nella Chiesa e di appartenere al Padre. Ma siamo chiamati a diventare maestri di vita pratica a due condizioni:
 
la prima è il coraggio, che viene messo in luce nel Vangelo di Matteo, di coloro che si fanno avanti, il coraggio di ringraziare, il coraggio della fede, il coraggio nelle tempeste, il coraggio di sapersi alzare.
 
E accanto al coraggio c’è il bisogno di essere umili, quando ci rendiamo conto che Dio ci sta facendo un dono troppo grande di cui non siamo assolutamente degni. Dobbiamo anche essere capaci di uscire da ogni nostro programma ed accettare la Sua volontà.
 
Si conclude con alcune domande:
 
perché ci troviamo qui oggi? Chi siamo noi che abbiamo preso l’impegno per la lectio? Di cosa abbiamo bisogno? Che disponibilità abbiamo ad ascoltare, a farci stupire e a cambiare per la Parola di Dio? Dio ci accoglie così come siamo, mettiamoci in ascolto e manteniamo il silenzio nella meditazione; mettiamo a tacere non solo la bocca ma anche tutti  i nostri  pensieri, facciamo questo sforzo! “Beati i silenziosi, perché il loro silenzio coinvolgerà gli altri”.
 
Concludiamo con una preghiera di ringraziamento del Card. Martini:
 
Ti ringraziamo Signore, per averci condotto qui
 
Ti ringraziamo perché sei in mezzo a noi
 
Che stiamo insieme nel Tuo nome
 
Ti chiediamo Signore di manifestarTi
 
Apri i nostri occhi, le nostre orecchie
 
Perché possiamo vederti nella nostra vita,
 
nella nostra esperienza di Chiesa,
 
nel nostro peccato, nella nostra povertà
 
e nella resurrezione.
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Lectio Divina
Tempo iniziatico
 
II. Domenica 26-10

Matteo 19, 16-22 – Cosa mi manca (il giovane ricco)
 
 
Don Gianni inizia la lectio facendo alcuni cenni sulla meditazione cristiana. Accade di sovente che si segua la meditazione di altre confessioni religiose senza sapere  nulla del patrimonio della tradizione evangelica, che non si conosca il grande tesoro che ci è stato dato.
 
Anche qui, se si segue correttamente la sequenza di ascolto, silenzio, collatio e vita, ebbene quella sequenza è fondamentale per riuscire ad entrare dentro sé stessi, nel proprio profondo.
 
Ecco i due pensieri che formula Don Gianni:
 
il primo è che siamo chiamati ad imparare con il corpo, perché la nostra è una religione di “incarnazione” e la preghiera non è un fatto intellettuale ma passa attraverso il respiro, è ritmata e imparare a comporre il cuore ed il respiro è il primo passo della preghiera. Bisogna, in qualche modo, riuscire a  concentrarsi, evitando di vivere le enormi distrazioni che affollano tutto il resto del tempo, per riuscire ad uscire dalla confusione.
 
Il secondo passo, più impegnativo, è fare il “vuoto”. Ma il vuoto non è l’assenza di pensieri, di sentimenti, anzi, é piuttosto l’intenzione deliberata di non fermarsi su nulla in particolare che non sia quello che la vita, Dio, lo Spirito, ci mette davanti;  il vuoto è la decisione di liberarci di quello che sta dentro di noi e di non vedere attraverso le lenti con cui vediamo il tutto. L’ultimo passaggio al quale arriveremo è la decisione di arrivare alla morte completa di noi stessi, l’unica condizione che ci permetterebbe davvero di risorgere.
 
Leggiamo il passo oggetto della nostra meditazione, Matteo 19 16-23
 
“16 Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». 17 Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso». 20 Il giovane gli disse: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». 21 Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi». 22 Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. 23 Gesù allora disse ai suoi discepoli: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli.”
 
Cominciamo con un attimo di silenzio, in modo da entrare nel brano. Gesù sta salendo verso Gerusalemme; mettiamoci in questa condizione e vediamo che immagine ci suscita il brano. Il giovane ricco che si avvicina a Gesù siamo noi e Gesù parla con noi, e sta rispondendo alle nostre domande.
 
Per un confronto del brano con quelli paralleli, i riferimenti sono: Marco 10, 17-22, Luca 18, 18-23.
 
Da un sguardo su tutto il capitolo capiamo meglio cosa vuole indicarci Matteo e, apparentemente, Matteo sembra volerci parlare di tante cose diverse.
 
Nei versetti 1-12 ci parla dell’uomo e della donna, della chiamata al matrimonio, e della scelta, che non è una scelta facile.
 
Nei versetti 13-15 ci parla dei bambini, che appartengono al Regno dei Cieli; così ci dice Gesù.
 
Nei versetti che ci interessano, dal 16  fino al 30, parla della situazione dell’uomo ricco: ricco di doni, chiamato a condividerli, lasciando tutto. In realtà tutta la serie di versetti è legata da un filo rosso: “in principio” richiamato nei versetti 4 e 8 del capitolo 19.
 
Infatti Dio ha creato l’uomo e la donna e li ha fatti uno per l’altra, come ricchi di doni e liberi; il peccato, però, ha offuscato tutto questo. E’ necessaria, quindi, una nuova creazione, un nuovo inizio che riporti l’uomo ad essere bambino, perché il regno del Cieli è dei bambini, e per diventare bambini, bisogna denudarsi: nudi siamo usciti dal seno materno e nudi torneremo alla terra. (Giobbe 1 20). Dunque l’uomo perfetto, maturo, completo é colui che vive tutto come dono, da ricevere e donare a sua volta. L’uomo deve vivere un eterno anno santo, in cui tutto sia  donato  tutti e a nessuno manchi. Ciò che non deve mancare, non è riferito soltanto ai beni materiali, ma anche a quelli intellettuali, morali e spirituali. Siamo chiamati a ricevere tutti doni da Dio come figli e a darli ai nostri fratelli.
 
Esaminiamo più attentamente i nostri versetti: ci troviamo davanti ad un bellissimo dialogo, serrato, fra Gesù ed un uomo ricco, probabilmente conosciuto e stimato …come sono generalmente i ricchi. Mettiamo subito in chiaro che “lasciare tutto” non fa parte della vocazione religiosa, nel senso che non  riguarda soltanto i religiosi, ma ciascuno di noi. E lasciare tutto è un’azione essenziale dell’esistenza umana, nella vita quotidiana, per ogni persona. Il nostro ricco inizia il dialogo facendo una domanda: “cosa debbo fare di buono per avere la vita eterna?” Chiariamo  questa immagine di “ricco”: è un uomo qualsiasi, benestante, di cui non conosciamo il nome, perché, in fondo, è semplicemente uno di noi.
 
La sua non è una domanda sorprendente, perché in realtà è la tipica domanda che faceva il discepolo ad un maestro; ed il maestro rispondeva solitamente con le cose da fare, come  praticare le virtù, e con consigli e tecniche da mettere in atto. Gesù è un maestro a cui viene rivolta questa domanda, che mette un po’ in mostra la preoccupazione del fare. L’uomo è un ricco, abituato ad attribuire un prezzo ad ogni cosa,  è pratico e si preoccupa di perdere la vita eterna. Non è cattivo, è uno come noi e sta cercando di centrare la propria vita, di viverla bene. Il rabbì Gesù dà una risposta che inizia a correggere un po’ la mira:
 
-           “perché mi interroghi su ciò che è buono? “ L’uomo è preoccupato del fare bene e Gesù risponde che il bene è una persona, il bene è Dio, e il bene sono anche gli altri intorno a noi. Ancora il bene non è una questione di quantità, ma soprattutto di “qualità” di ciò che doni.
 
-          Gesù dà poi un consiglio: “ se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti”. Ma anche qui c’è una correzione. La vita eterna non si possiede, è un’offerta di Dio. Alla domanda del ricco “quali?”  Gesù risponde con la seconda tavola dei comandamenti, quella che riguarda le relazioni con il prossimo: “non rubare, non uccidere…” Osserviamo quindi che mentre il ricco fa una domanda per sé stesso, su come guadagnarsi la vita eterna, Gesù risponde di guardarsi intorno,  di pensare agli altri, di esercitare l’amore. A questo punto il dialogo avrebbe potuto finire, invece il ricco prosegue e dice “tutto questo l’ho osservato”. Di nuovo una puntualizzazione; il ricco non è malvagio, non è il ricco epulone che ignorava il povero Lazzaro, è onesto, non ha rubato, non ha mentito, ha onorato i genitori e ha amato facendo l’elemosina. Ma la sua è un’osservanza puramente formale dei comandamenti; è l’osservanza del fariseo. Al suo posto, dopo il consiglio di Gesù, noi ci saremo allontanati, pensando di fare il nostro dovere e di essere già a posto, invece il giovane ricco continua a chiedere…ha qualcosa dentro che lo inquieta, cerca una risposta più profonda, capisce che c’è bisogno di un di più per entrare nella vita eterna, in quella porta stretta di cui parla Gesù e ancora chiede: “Cosa mi manca ancora?” Gesù non risponde con un obbligo, non dice “devi fare..”, ma al versetto 21 risponde “se vuoi…” Non dà ricette, come facevano tutti i rabbì, non suggerisce tecniche infallibili alla maniera della catena di Sant’Antonio; Gesù dice invece una cosa all’apparenza paradossale: “se vuoi possedere, dona”, perché bisogna spendersi per fare delle cose grandi, bisogna liberarsi da diverse cose, dalla nostra vita di routine, dalle cose che facciamo abitualmente e continuamente, da tutto ciò che “va bene così”, da ciò che ci immobilizza e non ci fa andare più in là, che fa parte di una vita scontata e borghesemente onesta.
 
Nell’introdurre il Vangelo di Matteo abbiamo evidenziato il coraggio e l’umiltà; ecco, il nostro uomo ricco non ha il coraggio, quel coraggio di San Francesco, non se la sente di andare controcorrente per avere un tesoro nel Regno dei Cieli. Dunque, avendo ascoltato, il giovane, triste, se ne va.
 
La domanda è: perché non riusciamo a sbilanciare la nostra vita? Perché puntiamo sempre il nostro baricentro sulle cose terrene e non verso Dio? La scommessa è passare da un rapporto di comodo (…ho la mia vita, ho il necessario, non faccio male a nessuno…) ad un rapporto precario, che si appoggia soltanto su Dio. Sappiamo giocare in borsa ma non sappiamo comprare le azioni di Dio. Per seguire Gesù bisogna sbilanciarsi, soltanto così possiamo trovare il nostro vero essere, l’autenticità della nostra vita.
 
L’uomo del nostro brano conosce la verità, non l’accetta, preferisce mantenere quell’etichetta da ricco che il mondo gli ha dato e rimanere così com’è. E’ arrivato baldanzoso, sicuro, aspettando delle lodi e se ne va triste, perché? Perché è pieno di cose che lo possiedono, che non lo lasciano libero; una cosa ci lascia liberi se possiamo anche perderla, lasciarla, donarla. Ma se noi non sappiamo far questo  non ci lascia liberi.
 
Il giovane ricco è pieno di cose da fare, ma è vuoto dentro e quel vuoto che sentiva, lo sente ora più profondamente. Che cosa farà ora? Il vangelo non ce lo dice, ma ci chiede di rispondere alla domanda: “cosa facciamo noi, ascoltando queste parole?” Cosa dobbiamo lasciare della nostra vita, ma anche dei nostri gruppi, del nostro lavoro, per essere autentici con noi  stessi? Dobbiamo guardarci dentro, dobbiamo essere pronti a dire a Dio: “non ce la faccio a fare quello che tu mi chiedi, a lasciare tutto, però ho il desiderio di seguirti.”
 
Sorprendentemente Gesù guardandoci, ci amerà, ce lo dice il  Vangelo parallelo di Marco 10,17-22,  ci verrà anche incontro, perché “ciò che impossibile agli uomini è possibile a Dio”.  
 
Di seguito, alcune riflessioni conclusive del nostro parroco:
 
il primo pensiero è che la ricchezza non fa la felicità, ma che cos’è la felicità? Perché anche se siamo poveri non siamo felici…La scelta di mettere questo passo all’inizio del cammino è stata fatta per poter capire “cosa mi manca”. E questa domanda ci aiuterà ad arrivare a ciò che vogliamo. E ciò che vogliamo non è pensare solo a noi stessi, ma, come dice Sant’Agostino, “ama e fa ciò che vuoi” dunque ciò che hai scelto, ciò che ti muove, la tua ragione essenziale, ciò che sei.
 
Il secondo pensiero è relativo al rapporto tra possibilità e impossibilità: impossibile per gli uomini, ma a Dio tutto è possibile. Nella stagione di profondo disincanto che attraversiamo, se pensavamo che ci fosse una possibilità per l’impossibilità, ci accorgiamo che forse non c’è nessuna possibilità…ma nello stesso tempo è questo che ci blocca, e se non ci diamo una speranza, un orizzonte, non andiamo avanti. E darsi un orizzonte è essere capaci di immaginare l’inedito,  è essere creativi, perché nulla come la fantasia dello spirito ci rende generativi, ci fa produrre vita. E se sono gli eunuchi quelli che secondo Gesù danno fecondità, può essere che anche una persona sola, uomo o donna che sia, possa comunque vivere una fertilità. Ragionando, quindi, paradossalmente sul  fatto che il giovane ricco abbia delle possibilità, ahimè vediamo che se ne va. E le possibilità sono proprio quelle che gli fanno dire di no a Gesù. Evidentemente non è quello che si ha  a farci felici ma proprio ciò che ci manca. Forse è questa la chiave; purtroppo però non si ha il coraggio di perseguire ciò che ci manca, e perché? Forse per  paura di perdere anche quello che abbiamo? Perché significa mettersi in gioco di nuovo? Aprire orizzonti che creano aspettative che potrebbero andare deluse? Ma Gesù dice che la vita non è vita, a metà,  e potrebbe anche essere che seguendo  Gesù (..ma poi che significa seguire Gesù?), si aprano  nuove  strade.
 
Un’altra riflessione è relativa alla cruna dell’ago, a quella porticina attraverso cui si entrava  a Gerusalemme quando di sera, i varchi  venivano chiusi per paura dei briganti; ma da quella particina poteva passare solo l’uomo con la sua nudità, lasciando fuori tutti i suoi beni, carri, cammelli, ecc.
 
Forse noi abbiamo un futuro, una possibilità, ma dobbiamo cominciare daccapo ed essere come i bambini, perché noi, in realtà stiamo bene, nella nostra povertà e non ci curiamo molto degli altri. Non abbiamo proprio tutto quello che vorremmo? Possiamo ricorrere a droghe che ci accontentano. Dobbiamo essere noi a decidere. La differenza è data dalla semplicissima parola, la chiave di tutto,  che Gesù dice a quest’uomo alla fine: “Seguimi”. E questo non vuol dire che tutto quello che c’è prima non vale…Va e vendi tutto, dallo ai poveri, impara la condivisione, impara che i beni non sono solo possesso, che non puoi possedere gli altri …”Seguimi” vuol dire facciamo strada insieme, vuol dire “che tu non sia solo”, che tu sia capace di accorgerti che c’è un altro, che tu sia uno che abita sé stesso non da sé ma in compresenza con l’altro perché, altrimenti, non fai strada.
 
“Seguimi”, presuppone che qualcuno che mi muove può esserci. E non è che in questo modo perdiamo tutto, perché “avremo il centuplo”, e lo avremo quaggiù, in questa vita, non chissà quando. Ma a noi spesso non interessa questo centuplo, non ci pensiamo, non sappiamo cos’é. E quindi diciamo, semplicemente “prova a camminare, non fermarti da solo”, La chiave è quella sinodalità di cui parla il testo finale  del documento  approvato il 25 ottobre c.a. dalla terza Assemblea del Cammino Sinodale, intitolato “Lievito di pace e di speranza”.

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